Giuseppe Possa (2001)
“Non ancora” (olo su tela cm 100×150) (98)
”La Coscienza delle Immagini all’Alba di un nuovo Millennio” di Giuseppe Possa (2001)
(Pubblicato su ControCorrente n.22, giugno 2001)
«Vedere un quadro, non in “orizzontale”, ma in verticale comporta uno sforzo intellettuale… Se, però, si vogliono cogliere i semi di nuovi fermenti culturali, se si vogliono proiettare nel “domani” le aspirazioni dell’ oggi, la “Storia” c’ insegna, non è certo nella “superficie” delle forme che si colgono questi fermenti, bensì oltre quelle cose che ci appaiono dipinte».
Queste parole che il pittore Angelo de Francisco ha posto nell’introduzione al suo libro, “La coscienza dell’immagine” (Editrice Nuovi Autori ‑ Milano), sono la chiave di lettura del testo e del suo operare artistico. Egli, infatti, non si pone solo problematiche estetiche e formali, ma ricerca nelle immagini e dentro le immagini, la “continuità” e la “radice” del significato di esistere. Affascinato dalla lettura di questo volume (che Fulvio Aglieri, in una nota editoriale, definisce il diario di un cammino faticosamente percorso per uscire dall’ oscurità di certi schemi, per tentare di sconfessare il dogma e liberare la facoltà di giudizio verso l’ illuminazione intellettuale e la visione dell’opera d’arte come organismo autonomo) mi sono recato nello studio dell’autore, in via Solferino a Milano, per meglio approfondire il suo lavoro pittorico, che avevo avuto modo di conoscere soltanto nella visione di alcuni quadri, in casa di amici. Angelo de Francisco mi accoglie con signorile e compita cordialità, mettendomi a mio agio in un ambiente raffinato. Ancora prima di approfondire la nostra conoscenza (ci eravamo incontrati in rare occasioni), mi precisa subito, a chiosa del contenuto del suo libro:
«Chi crea (l’artista) comunica il proprio “essere” al mondo (all’altro) e lo fa per un suo bisogno innato. Chi guarda (fruitore, spettatore), raccoglie il “messaggio”, lo ascolta, lo elabora nel proprio “io”, non si fa condizionare (nel senso che non lo prende a modello in modo acritico) e poi lo attua o prende spunto per elaborarne uno proprio. Chi crea verifica con chi guarda, se ciò che voleva dire è stato “capito” e da qui prosegue per approfondire. Si attua in questo modo una comunicazione in cui entrambi verificano, non il mezzo o lo strumento con il quale comunicano, ma l’oggetto del comunicare che è l’io di chi parla; non la forma del discorso, ma la “sostanza” di ciò per cui noi comunichiamo».Qual è questa “sostanza”? lo incalzo, poiché il mezzo (in altre parole la forma del nostro segno) viene da noi maggiormente tracciato in questo scambio di informazioni, che meglio ci chiarisce la posizione di quel segno nello spazio : «E’ la nostra verità» prosegue «che noi cerchiamo di comunicare all’altro, il quale a sua volta ci comunica la sua verità, la quale, servirà a noi per meglio “individuare” la nostra. Ciò significa che la verità non è una ed assoluta, bensì molteplice. E questa verità individuale è assoluta e relativa. Assoluta perché orbita nel singolo universo (che siamo noi)e relativa perché non entra negli altri universi (che sono i singoli altri)».
Quindi, lo interrompo, cosa significa fare arte o fare, come nel tuo caso, un quadro, al di là della tradizione?
«Occorre guardare l’Arte e le immagini da essa prodotte, non più da un punto di vista formale o del significato apparente, ma con una lente di tipo psicanalitico, che vada cioè a guardare nel più profondo dell’io dell’artista e lì ricercare quelle motivazioni che lo hanno spinto a fare in quel modo e quel quadro o Opera; il perché ha usato quei segni e proprio in quel punto della tela o dello spazio dove ha operato (e non in un altro), che significato hanno per lui, e da qui, risalire alle origini e ai condizionamenti culturali (che man mano diventano sempre più evidenti) e alle “codifiche” fatte da questa cultura».
Angelo, dico tanto per continuare la conversazione, è necessario che l’autore spieghi la sua opera, specialmente quando è formalmente astratta, o bisogna che chi guarda riesca da solo a capire e cogliere la stessa sua emozione, magari anche giungendo ad un’interpretazione nuova o addirittura opposta a quella che l’artista dichiara?
«Se ciò avviene» continua de Francisco, «è il critico che scava nell’inconscio dell’autore e gli porta in luce ombre dei suo io. Comunque, credo che ogni artista sia in contatto perenne col proprio inconscio e si scavi dentro e le immagini che esplica, anche se non ne realizza il vero significato, sono parti di quel “se stesso” che nascosto alla coscienza preme per svelarsi… Le immagini che l’artista propone per le sue opere, siano esse dipinte o scolpite o “ambientate” in spazi esterni oppure fotografate o filmate, sono la sua “percezione” del mondo, ciò che lui vede e sente riguardo alla realtà circostante, agli avvenimenti e alle idee che lo circondano: sono il dietro-dentro del suo progetto di uomo, e lo sono proprio perché lui “crede” in quelle sue opere e si identifica con loro».
A questo punto, ci prendiamo una pausa per gustarci il caffè che nel frattempo de Francisco ha preparato e così colgo l’occasione per chiedergli alcune notizie biografiche per meglio farlo conoscere ai lettori.
Angelo de Francisco è nato a Milano nel 1951; ha conseguito la maturità classica ed artistica, frequentando poi l’Accademia di Brera, dov’è stato allievo dei critico d’arte Guido Ballo. Si dedica alla pittura dal 1973 ed ha al suo attivo diverse mostre personali, non si sente però di avere alle spalle una “storia” degna di nota: «Se non conosci qualcuno, se qualcuno non ti presenta a chi “conta” per avere spazi espositivi e il consenso della critica, tu puoi essere bravo, ma nessuno saprà mai chi sei… e poi, è forse il “curriculum” più importante dell’opera stessa?» mi chiede, provocatoriamente. Comunque, fin da piccolo gli piaceva dipingere: «Dipingevo per istinto, senza una scuola» racconta, «e il desiderio di fare il pittore mi è venuto quando ho incominciato a studiare al liceo storia dell’arte, ma la mia famiglia era chiusa all’idea di un figlio artista; mio padre avrebbe voluto che facessi il magistrato o l’avvocato. Così mi fu più semplice scrivere poesie, del resto la letteratura era una delle materie fondamentali dei miei studi classici».
Alla poesia, egli si affidava per superare l’introversione giovanile, unitamente al personale disagio di confrontarsi con gli altri. In questo modo gli era più semplice esprimere la propria sofferenza e così riempiva quaderni di liriche, balenandogli persino il desiderio di fare il poeta:
«Ma si sa che il poeta non è un mestiere, non si guadagna » afferma con ironia. « Allora cominciai a pensare di fare il filosofo, che vedevo sempre legato ai bisogni interiori dell’uomo, che cerca una risposta ai vari perché della vita. Le poesie, mi dicevo, non le legge nessuno a maggior ragione quelle di autori sconosciuti. Il quadro, invece è più semplice, è più abbordabile, perché è lì, occupa uno spazio che è visibile, è quantificabile; al contrario della poesia, è insomma, vendibile. Nel 1973, presi quindi questa decisione e dipinsi un’opera che, sia per la figura umana, sia per la pittura stessa, mi rappresentava un punto di arrivo e un punto di partenza da cui sviluppare nuove opere, con una tematica più consistente ed una maggiore coerenza. Da quel momento dipinsi di più e scrissi sempre meno».
Tuttavia, la componente culturale, in particolare filosofica, ha continuato a fargli da supporto, anzi ha avuto sempre più spazio nella sua attività pittorica, la quale, in linea di massima è passata attraverso sei periodi o momenti emozionali o cicli, in cui raccontava o esprimeva delle forti tensioni:
«Dapprima» precisa, «dipingevo figure contorte, di una muscolarità che fuoriusciva dalle forme anatomiche per gonfiarsi di una rabbia che repressa esplodeva sulla pelle, continuamente spezzata da un chiaro-scuro volumetrico.
Dopo il 1979, invece, i miei lavori erano strutturati in modo da essere sospesi al centro dell’ambiente o di essere azionati dal fruitore, il quale, movendo funi o girandoci attorno, potesse seguire lo svolgimento di un’azione. Ciò che mi premeva esprimere, non era tanto il gioco formale di quelle strutture semovibili, quanto quello che ci andavo a raffigurare sopra. Da un lato c’ era l’inizio di un’ azione (un’ immagine colta in un certo atteggiamento) e sul retro o sul lato opposto, il punto di arrivo di quell’ azione; ma per arrivarci, era necessario “muoversi” da un punto fisso e girare intorno all’opera. Occorreva cioè compiere un’ azione per vedere il risultato finale. Lo stare a contemplare il quadro, in quel frangente, non aveva più senso. “L’ azione” è ciò che fa muovere il mondo, ciò che ci fa uscire da uno stato predeterminato per arrivare dove vogliamo. Si tratta di trovare ‘l’ azione” più giusta, più saggia, quella cioè che ci spinga verso una crescita piuttosto che quella che ci faccia retrocedere verso la catastrofe e la rovina. Questo era un po’ il concetto che cercavo di esprimere negli anni ’80-’83».
In seguito, e fino al 1990, de Francisco, quasi ricominciando da capo, esegue opere a matita e smalto su legno di compensato, ora spaccato in brandelli, ora assemblato con altri materiali (plastica in prevalenza). La tavola di compensato con le sue venature dai colori pastello era per Angelo un po’ l’elemento naturale da cui ripartire, per costruire qualcosa che avesse un valore, al di là di quella “rabbia” che aveva espresso fino ad allora. Aggiunge l’autore:
«Ricostruire la figura secondo linee più dolci, significava ricostruire me stesso e il mio modo di rapportarmi con il mondo. Il compensato, meglio della tela, aveva il potere intrinseco di esprimere l’elemento natura, contrapposto alla tecnologia meccanizzata. Su queste tavole, spesso spezzate o a frammenti, echeggiava sempre la figura di un uomo o di una donna; figure che avevano il desiderio inconscio di contrapporsi a quella lacerazione in atto che pareva volesse risucchiarle».
Siamo così arrivati al Quarto periodo, in cui de Francisco esegue una serie di disegni a pennarello e tempera acrilica su carta: volti e corpi tracciati come “scarabocchi” che, con il tratto particolare del pennello, acquistavano una “musicalità ‘, di chiari e scuri, di linee intrecciate che si aprivano e chiudevano, di colori nitidi, che non lasciavano spazio a ripensamenti ed esprimevano, nonostante vibrassero come piacevoli suoni, la sua angoscia.
Nel Ciclo successivo, però, ritorna alla pittura ad olio che aveva momentaneamente abbandonato, con una pennellata più fluida e quasi stinta, simile all’acquarello. I soggetti sono ancora corpi o torsi di persone, dove il pennello, ma spesso la spatola usata a guisa di scalpello, ne “sbrandella“ la forma e scava all’interno di quella sagoma, come a significare che il dramma che agita la figura è solo all’interno di quell’io, di quel soggetto, non fuori da lui. A questo punto si mescolano colori e luci e ombre, a neri e bianchi, i quali si fondono e stridono in grigi multicolori. La pittura si fa astratta, all’interno di una sagoma figurale dal contorno ben delimitato; si fa musica cacofonica dalle note squillanti, chiare; diviene grido, consapevolezza nella sua essenza di vita; la pittura, infine, si fa coscienza dell’artista che la crea.
Nel Sesto, e per ora ultimo, momento emozionale (ma sicuramente se ne aggiungeranno altri in futuro) de Francisco compone tele di ampie dimensioni (cm. 100×150) con la tecnica delle velature, sovrapposte su un bozzetto in bianco e nero. Naturalmente esse sono prodotte con un ritmo più lento rispetto alle precedenti che erano più impulsive. Questa elaborata esecuzione dà maggiore profondità alle immagini, le quali nel tempo si arricchiscono di nuovi valori ed emozioni. Il quadro è un insieme di “segni” accumulati nell’arco di tempo che va dall’inizio dell’opera alla sua conclusione e se potessimo vederlo a ritroso, cioè dalla superficie ultima sino alla tela bianca dell’origine, la vedremmo come una linea retta sulla quale sono state apposti tanti segni e tante emozioni, a volte contrastanti, ma che uniti nel loro insieme hanno potuto formare quell’ immagine e solo quella:
«Il senso è che il quadro, ma anche l’arte in genere», interviene de Francisco, «non è solo e non più una tela dipinta, di conseguenza un semplice fatto commerciale, ma diviene la coscienza dell’artista, il “risveglio” dell’uomo che sa cogliere il significato più profondo del suo essere al mondo, in questo luogo e in questo contesto storico. L’opera, pertanto, non è più un fatto estetico, ma la presa di coscienza della propria condizione di uomo e della propria missione. Il mio segno (dipinto) è quindi un appiglio del mio io più profondo, del mio io che si risveglia al mondo e alla storia; alla mia condizione di nascita e al cammino che dovrò fare per realizzare appieno i miei desideri più latenti». Nel comporre le proprie figure, egli si è quasi sempre ispirato a Michelangelo, cogliendo la possanza fisica dei suoi personaggi, e al Caravaggio per le sue luci ed ombre; mentre per il ciclo delle tavole “spaccate” ha guardato a Burri e Fontana:
«Ho preso spunto» precisa, «perché poi ho sempre elaborato a modo mio le immagini. Pensavo, comunque, a questi artisti, prima di iniziare un quadro o quando sentivo il bisogno di un suggerimento, ma poi via… a dar libera “voce” al mio inconscio e alle mie emozioni più segrete. Non ho mai frequentato maestri veri e propri, per cui mi potrei definire, oggi, un pittore naif che vorrebbe saper dipingere un bel paesaggio o un bel nudo secondo tutti i canoni classici. Questa aspirazione probabilmente, anzi certamente, va vista come bisogno di una maggiore certezza interiore, come desiderio di una stabilità che si rafforza negli anni, perché nell’avventura artistica (che è un po’ come il viaggio di Ulisse nel suo ritorno verso casa, in cui ha trovato innumerevoli ostacoli) il sogno, che ci guida e ci illumina il cammino lungo bufere e naufragi, è quello di essere padroni della nostra vita e delle nostre emozioni più forti, di risultare indistruttibili al dolore e alla sofferenza; in altre parole di saper essere felici in ogni istante della nostra vita».
De Francisco ha sempre dipinto per cercare attraverso le sue composizioni di capire se stesso e continuamente si è domandato: “chi sono?” fin dalla sua prima mostra, alla quale, infatti, ha attribuito un titolo significativo: “lo chi: lacerato nella Storia cerco!”. Alle tavole di quel periodo si sente molto legato, ritenendole cariche delle sue angosce, dei suoi tormenti esistenziali («sono le opere iniziali e quindi sono quelle più vere, più autentiche, meno contaminate dal mestiere») e si augura che siano capite ed apprezzate anche dal pubblico di oggi. Egli si è sempre sentito un “maìtre à penser“, come dicono i francesi e aggiunge:
“Perché ho una formazione umanistica, più che artistica e perchè dipingo i miei quadri solo quando ho qualcosa da dire, da comunicare o da svelare. Ho sempre bisogno di un profondo supporto emozionale e di un messaggio mai fine a se stesso. In questi momenti, mi pongo subito davanti alla tela bianca, pulita, ne annuso il profumo, ne percepisco la dimensione, l’accarezzo, ne “ascolto” la tramatura e mi dico: “questa è la mia vita nuova, incontaminata; ora posso ricominciare tutto da capo!”. E via! Dal profondo lascio emergere i segni, le forme, e spero di riuscire a fare qualcosa di ancora più bello, di più illuminante per la mia vita».
A marzo, Angelo de Francisco ha compiuto cinquant ‘ anni, eppure lui si sente poco più di un “ragazzo”, perché percepisce che ha ancora tante cose da scoprire. Inoltre, a tutt’ oggi non sa cosa farà “da grande” e ad un ipotetico ragazzino suggerisce:
«Cerca di capire chi sei, di conoscere te stesso nel modo più autentico e se affronti l’avventura dell’arte, non lasciarti condizionare da teorie o mode formali, ma guarda ai tuoi bisogni interiori, al perché vuoi fare arte e, con gli strumenti che più ti si addicono, scava in quello spazio cosmico che hai dentro di te, per scoprire quello che tu stai cercando e quello a cui stai tendendo. Non ci sono teorie, linee o forme già stabilite a cui tu devi guardare, ma ci sei solo tu, con il tuo impulso ad uscire, a nascere, con il tuo desiderio a vivere. Sei solo tu che crei il tuo universo secondo le tue logiche, uniche ed inimitabili; ci sei solo tu e la tua libertà incondizionata che si realizza nel momento in cui ne prendi consapevolezza» e conclude:
“il resto, secondo me, è solo storia dei millenni passati o di chi ti vuole vendere il suo “prodotto” per soggiogarti ai propri oscuri fini. Insomma, cerca la tua “scuola” in te stesso, abbi fede e determinazione in ciò che a poco a poco vieni scoprendo e ti accorgerai ben presto di essere tu maestro ed allievo, nello stesso tempo. Il terzo millennio sarà proprio questo: un lento, ma inesorabile risveglio delle nostre capacità più sopite, più represse; delle nostre capacità più “incapacitate”, che lentamente nei secoli a venire prenderanno maggiore coscienza, forza e consistenza».
In una Poesia-aforisma degli anni settanta, Angelo de Francisco scriveva: “L’Arte è l’umore di un popolo, / quando un cittadino vede calpestate le “sue istituzioni” / una rabbia d’impotenza lo pervade. / E’ la rabbia dell’uomo che lavora, / dell’uomo che non intriga; / è un’impotenza che ci soggioga ! / Il suo unico potere / è il grido nell’Arte”.
(da Contro-Corrente n 22 – giugno 2001)





















