Gianni Pre (2001)
“Gessù Cristo la Nazzarena e le compagne puttane” (olio su tavola cm 60×100)
“Corpi del Nuovo Millennio” di Gianni Pre (2001)
In un saggio dei 1987 intitolato: “Dalle combustioni plastiche agli automi“ ci eravamo soffermati sui momenti‑cardine della pittura di Angelo de Francisco sino a quell’ epoca, ed in particolare avevamo cercato di focalizzare l’ultima tappa della sua torturata ricerca, vale a dire quella da noi denominata degli automi, in quanto ci sembrava la più aderente al periodo storico contemporaneo. Ne riportiamo uno stralcio, poiché quella stessa tematica si lega indissolubilmente all’iconografia attuale: “De Francisco è pienamente consapevole dello sconvolgimento tecnologico che stiamo vivendo, e delle stridenti contraddizioni che esso produce e li rispecchia in queste ultime raggelanti visioni. Il dramma esplosivo o lo sbeffeggio che emergevano in passato lasciano il posto ad atmosfere asettiche, popolate da «esseri» anonimi, impressi in un vuoto pneumatico come ritagli unidimensionali. Il «legno» essenziale supporto in anni di ricerche, qui viene utilizzato in senso aspramente metaforico.
Non solo la superficie dei quadri, colorata con tonalità tenui, ai limiti della trasparenza, è di compensato, ma pure le figure, intagliate in listelli di legno. Quale contrasto tra il calore che emana questa materia ‑persino il suo odore sa darci delle sensazioni di dolcezza e di pacata serenità‑ e ciò che raffigura! Presenze gonfie, ipertrofiche sebbene reali, di una selva umana senza palpiti: disumanizzata. Automi che scorrono su nastri obbligati in una specie di epica della robotizzazione: affamati di codici e di numeri; e se talvolta si ribellano vanno a sbattere contro compatte muraglie color lavagna ‑la sequela di una cancrena di anni – senza moto né spinta? ‑, rimanendo imprigionati, paralizzati in uno spasimo che li sfonda o li taglia in due tronconi: in un’istantanea di vitalità assiderata“.
Questa, dunque, la penultima ma fondamentale fase che ha contraddistinto il meditato quanto sofferto percorso di un artista che non si è mai adagiato in un cliché dato, in un formulario di moda, bensì ha sempre ricercato radici ed humus del contradittorio divenire del tessuto storico. Resta, comunque, il fatto che il fulcro di tante sperimentazioni formali sia sempre stato ed è l’uomo: il suo dentro e fuori nella dinamica dicotomica degli avvenimenti sociali. In questo recente ciclo di opere ‑olii su tavola e su tela‑ l’icona‑uomo si staglia in una dolente ed immota fisicità che, da un lato, ci cala in una sorta di pietrificata sequenza di personaggi anonimi, tutti quanti uguali: mutilati degli arti, ma come brulicanti baconiamente nei lampi grigi, neri e verdastri di un’ineluttabile consunzione corporea e psichica. Dall’altro, non senza stilettate di amaro sarcasmo, ci riconsegna i connotati della verosimiglianza anatomica, seppure nel territorio ambiguo ed oniricamente deformante di una compresente mostrificazione.
Pertanto, Angelo de Francisco sia che dipinga agglomerati materici dall’andamento totemico, che rammentano, per la reiterazione ossessiva del soggetto, la rozza scultura primitiva, sia creature belluine, che sembrano risalire dalle profondità dell’inconscio individuale e collettivo, non intende altro che modellare i corpi del nuovo millennio. A de Francisco poco importa individuare, nelle sue tremende e tragiche figure, una tipologia che ne caratterizzi il marchio di classe, la razza, l’etnia; la sua sonda percettiva‑riproduttiva scava‑scarnifica‑taglia ogni riferimento puramente descrittivo per puntare ad una sintesi‑essenza che possa mettere a nudo, come succedeva nella serie degli «automi», le facce speculari dell’alienazione dell’uomo da se stesso, dai propri simili e dal connettivo sociale.
Paradossalmente, l’uomo del nuovo millennio, quantomeno quello partorito dai paesi industrializzati, agli albori dell’era informativa, viene rappresentato come una specie di gigante‑pigmeo dalle connotazioni primordiali. O come una massa informe di carne vitrea e fossilizzata, dove l’unghia della cancrena alienatoria ha già prodotto le sue implacabili devastazioni, le sue spaventose deturpazioni, consegnandoci, appunto, degli agglomerati senza sesso, senza età, senza Identità. Oppure, a mala pena evidenziandone gli organi sessuali, simile ad un manichino di dechirichiana memoria, o ad un’abbacinante sagoma luminosa, fulminata lungo chiazze‑pareti color nero pece.
Un feroce e dísincantato teatro della crudeltà, questo di Angelo de Francisco, dove il ghigno beffardo dell’alienazione rimbalza, in un agghiacciante gioco di echi e di specchi, nello scomposto labirinto di una civiltà accecata dai bagliori del potere e dell’oro.
(da Contro-Corrente n 22 – giugno 2001)








