Lella Cusin (1980)
“U-O-M-I-N-I” (olio su tela cm 200×140) 1974
“i-o c-h-i, lacerato nella Storia, c-e-r-c-o” di Lella Cusin (“Alla Bottega” maggio 1980)
Questo il titolo con cui Angelo de Francisco ha presentato le sue opere in una personale ospitata presso il Circolo Culturale «La Trappola». (1980)
I quadri di tre diversi momenti creativi (almeno per quanto riguarda la resa estetica) sono stati esposti con il criterio di una precisa narrazione non tanto temporale, quando di un discorso contenutistico che ha visto alternate opere strettamente figurative, opere informali e opere composte con una fusione di disegno e collage.
Il nome di Burri già connotativamente fatto presente nella critica pubblicata su queste stesse pagine (n. 3/ 1980) a firma Gianni Pre, e tutta la corrente della «Pop art» e del «collage» vengono spontanei, se pure entrambi rivisitati in maniera autonoma e personale.
Si tratta dei quadri che, senza titolo, hanno fatto da legarne con tematiche più consistenti e probanti: materiale plastico bruciacchiato e accartocciato, tele di juta drappeggiale e macchiate di rosso con frammenti di specchio, assi disordinatamente inchiodate, quasi a esprimere materialmente quella lacerazione – non solo dell’autore ma propria dell’uomo del nostro tempo – che ci spinge ogni giorno alla scelta e alla ricerca di nuove vie come acquisizione di nuove conoscenze da far proprie e rimeditare; cosa che de Francisco fa attraverso opere, come «Porci e padroni», «Zatar Nagomia: i morti con noi creano», «U-0-M-I-N-1», «Gesù Cristo, la Nazzarena e le compagne puttane», «Una donna per amico», «Autoritratto».
In «Porci e padroni» (due figure in primo piano alzano le lance su di un uomo, mentre dal fondo del quadro avanza una folla con bandiere rosse: al centro un buco apre il quadro) è ravvisata la situazione attuale e la speranza di un futuro (le bandiere che avanzano) avvalorata dal buco che si squarcia creando spazio. Ne «I morti creano» (lo sterminio di Zatar Nagomia ha fornito il motivo iniziale all’esecuzione del quadro) figure contorte (quasi tutte le figure di de Francisco sono ‘spiralate’, contorcimento visibile dell’uomo a esemplificare più interne contraddizioni) si accatastano verso un’uscita, rappresentate da un sole ocra-scuro stagliato nel mezzo del quadro: le morti violente degli uomini possono essere «concime» per far fiorire un’umanità se non migliore certo diversa.
«U-0-M-I-N-I» (notevole per l’esecuzione, l’essenzialità del colore, i pochi tratti che eliminano e scavano il fondo nero) è tra i temi più riusciti, ci pare, di de Francisco: corpi a spirali, arti che allungano ramificazioni senza radici, volti tesi nel grido, mani armate di pugnali; il tutto nella tensione della costruzione piramidale, che sembra acquietarsi nel successivo «Gesù Cristo, la Nazzarena e le compagne puttane», la crocefissione di un essere umano (uomo o donna) campita su di una landa deserta, dove si perdono sul fondo due altre crocefissioni, nella ricerca di creare, con lo spazio, una dimensione temporale. Un uomo bambino abbandona la scena (sulla sinistra del quadro), seguendo una puma di lancia.
Al di là dell’uso barocco del sangue, la figura arroccata alla croce è un po’ il momento rivelatore della tematica defrancischiana: l’«I-o c-h-i lacerato… » s’identifica nell’essere (uomo o donna) inchiodato alla croce, forse punito per aver cercato una possibile realizzazione della propria umanità da un potere che de Francisco, pur non avendolo individuato, sente e avverte incombente, grazie alla sua attenta e peculiare sensibilità. <<Una donna per amico>>, ha, alla base, un collage di giornali pornografici sopra cui s’apre, in colori pastello, un cerchio comprendente due figure dolci e irreali: dalla realtà dei nostri
rapporti a una speranza ma, una più attenta lettura, suggerisce un’interpretazione capovolta: dalla ‘falsa’ immagine che ci viene fornita dell’amore alla realtà che ci si fa avanti ogni giorno.
<<Autoritratto», infine, una figura “titanica” costretta entro i limiti del quadro, che vorrebbe spezzare; un autoritratto nuovo, certamente, dove de Francisco proietta se stesso non come portatore di mondi o ciclope incompreso, ma come uomo costretto dalla gabbia del quotidiano,che, lacerato, cerca, attraverso l’arte, se stesso e la sua potenziale socialità.
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